“Serve una nuova idea di relazioni sindacali e di politiche per il lavoro. Salari, produttività e competenze al centro del cambiamento”

 

Il fallimento dei referendum promossi dalla Cgil non è solo un fatto politico, ma il segnale di una crisi più profonda: quella di un modello di relazioni sindacali che non riesce più a interpretare i cambiamenti del mondo del lavoro e dell’economia.

Negli ultimi anni il dibattito si è concentrato sulle rigidità normative, sugli scontri ideologici, su un conflitto permanente che oggi non ha più senso. Nel frattempo, i dati parlano chiaro: l’Italia è in ritardo rispetto agli altri Paesi OCSE sul fronte della crescita dei salari e della produttività, nonostante oltre il 90% dei lavoratori sia coperto da contratti collettivi. Questo significa che il sistema, così com’è, non funziona più.

Il tema del salario minimo è emblematico. La decisione del Governo di impugnare la legge toscana, che prevedeva un criterio premiale nelle gare pubbliche per le aziende che garantiscono almeno 9 euro lordi l’ora, è una scelta miope. Non si può continuare a negare l’urgenza di affrontare la questione salariale mentre milioni di lavoratori fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. Eppure, fissare una soglia per legge non basta: occorre rafforzare la contrattazione di secondo livello e creare meccanismi che leghino la crescita salariale all’aumento della produttività e alla redistribuzione del valore aggiunto.

Allo stesso tempo, il mondo del lavoro è attraversato da trasformazioni profonde: smart working, welfare aziendale, conciliazione vita-lavoro, nuove forme di organizzazione e digitalizzazione dei processi produttivi. Tutto questo richiede un nuovo patto sociale, non il ritorno alle logiche del Novecento.

Le differenze tra Cgil, Cisl e Uil sulla strategia da adottare sono note: concertazione per la Cisl, mobilitazione per la Cgil. Ma il vero punto è un altro: come rilanciare il ruolo delle parti sociali senza cadere nella nostalgia per la concertazione degli anni ’90. In quel periodo sindacati e Governo seppero fare scelte coraggiose che portarono l’Italia nell’euro. Oggi servono scelte altrettanto coraggiose per affrontare sfide epocali:

  • demografia: nei prossimi 15 anni avremo 5 milioni di lavoratori in meno e 2,5 milioni di pensionati in più;
  • competenze: oggi il 45% delle imprese fatica a trovare personale con le qualifiche necessarie;
  • migrazioni: il recente decreto flussi, con mezzo milione di ingressi programmati, è un segnale importante, ma da solo non basta se non si accompagna a politiche di integrazione, formazione e inclusione.

Di fronte a questi dati, non servono slogan né rigidità legislative. Servono politiche attive del lavoro, investimenti in formazione continua, contrattazione aziendale e territoriale che premi chi innova e chi scommette sulle persone.

Il futuro delle relazioni sindacali si gioca su tre pilastri chiari:

  • Competenze, perché senza formazione la transizione digitale resterà incompiuta;
  • Innovazione, per governare il cambiamento con strumenti come lo smart working, la conciliazione vita-lavoro, il welfare integrativo;
  • Redistribuzione, per legare la crescita dei salari alla produttività e garantire equità.

Non è più tempo di scelte ideologiche o di immobilismo. Il mondo del lavoro chiede risposte concrete, basate sul dialogo e sulla responsabilità.

Purtroppo, il Governo Meloni sta scegliendo la strada opposta: blocca la legge toscana sul salario minimo, ignora il problema della produttività, rinuncia a politiche di inclusione e non investe seriamente in competenze. È una strategia perdente, che condanna il Paese a restare fermo mentre il resto d’Europa corre.

Paolo Bonafè