Quella di domani sarà la prima giornata italiana “interregionale” di maxi-blocco delle auto per abbattere lo smog. All’iniziativa parteciperanno 80 comuni delle 7 regioni del nord d’Italia, mentre mancherà purtroppo l’adesione delle grandi città del centro sud. Se la legge pone a 35 giornate la soglia massima annua di superamento dei limiti di inquinamento, Napoli, ad esempio, raggiunge il triste primato dei 156 giorni, seguita da Torino con 151, Ancona con 129, Ravenna con 126, Milano con 108, Roma 67 e Venezia 60. Per fronteggiare la grave situazione di emergenza, che questi dati denunciano, si è costituito un comitato di coordinamento fra gli amministratori dei comuni della Pianura Padana e l’ Anci, con l’obiettivo di predisporre iniziative condivise e interloquire con il Governo e le Regioni, per ottenere risposte strutturali e risorse significative.
Con lo slogan “Il tram in movimento”, anche la città di Venezia aderisce alla domenica ecologica, dedicando la giornata ai temi legati alla mobilità sostenibile, mentre nella mattinata un convoglio tranviario percorrerà il tratto dal deposito di Favaro a piazza XXVII Ottobre.
Gli studi evidenziano che il traffico urbano concorre alla produzione di PM 10 per il 45%, il riscaldamento per il 28%, l’industria per il 10%, porti e aeroporti per il 9%.
Si sa che una domenica senza auto non può migliorare significativamente la qualità dell’aria, ma è certo che un’ efficace azione di sensibilizzazione, volta a promuovere il trasporto pubblico – in un complessivo quadro di sostenibilità dello sviluppo urbano – attribuisce alla giornata di domani una funzione importante, per favorire il cambiamento degli stili di vita.
Paolo Bonafè Presidente www.laboratoriovenezia.it
Un quotidiano ha riportato l’esito di un’inchiesta che rileva lo stretto legame fra lo sviluppo socio-economico di un territorio e il livello di apprendimento scolastico dei ragazzini che lo abitano: emerge così l’immagine di un’Italia segnata, ancora una volta, dalla disparità fra nord e sud, fra ricchi e poveri. Fotografia che, non stupendo, non sembra nemmeno stimolare e sviluppare alcuna seria riflessione, rispetto all’emergenza culturale di cui il paese soffre. Il settore della scuola subisce improbabili “riforme” e continui tagli finanziari, mentre gli insegnanti non rappresentano certo una categoria professionale fra le più valorizzate e socialmente riconosciute. A fronte di ciò, il dibattito politico si concentra sull’introduzione dell’insegnamento del dialetto nella scuola; tutto questo in un paese in cui, solo il 30% delle persone, legge un quotidiano o un libro all’anno, in cui il livello di alfabetizzazione medio mette in luce una scarsa dimestichezza con la lingua italiana e con le elementari basi della matematica.
Si tratta di una delle ultime definizioni sociologiche, riferita ad una generazione che si trova schiacciata in modo pressante fra due aree di bisogno, quella di cura e assistenza, espressa dai genitori ormai anziani e quella di sostegno ed aiuto economico, manifestata dai figli, impossibilitati ad emanciparsi dal nucleo familiare di origine. La generazione sandwich, oggetto di attenzione da parte dello stesso presidente Obama, in Italia presenta una connotazione propria e riguarda la generazione fra i 55 e i 65 anni, con una particolare caratterizzazione al femminile. E’ quindi sulle donne – per la funzione di caregiver loro storicamente attribuita – che questa pressione pesa maggiormente: le cause sono rintracciabili nell’allungamento medio della vita, nella cronica carenza di servizi sociali, nella grave crisi economica. Ognuno di questi fattori, o un mix degli stessi, costringe questa generazione a fronteggiare le richieste di cura dei genitori e addirittura dei nonni, di mantenimento dei figli e di accudimento dei nipoti. Questa analisi non è volta a negare il valore imprescindibile del patto di solidarietà, che deve legare le generazioni fra loro, ma piuttosto evidenzia come questo patto, per realizzarsi pienamente nell’attuale società, non possa trovare risposta nel recupero del modello ottocentesco della famiglia patriarcale. A fronte della fisiologica crisi del Welfare State, il nuovo modello che si sta imponendo, il cosiddetto Welfare di Comunità, non deve confondere l’attuazione del principio di sussidiarietà con la rinuncia all’assunzione delle responsabilità da parte dello Stato, trasferendo i carichi di cura e assistenza sulle famiglie.